Non scrivo da tempo. Mi sono persa a rincorrere la vita, gli altri, eppure sono riuscita a intrappolare qualche frammento di felicità. Istanti rubati. Suggestioni.
Il tempo non riesco a raggiungerlo. Non è mai stato dalla mia parte.
Sono gelosa della mia natura. Gelosa dei miei alberi. Del risveglio degli insetti. Della luce dorata della sera. Sono gelosa dei vocaboli. Di quei libri che mi hanno donato intuizioni, ispirazioni, cultura.
Mi commuovono le uova di insetto, le tane dei roditori, le impronte che lasciano le nuvole. Mi commuovono le ali che sbattono prima di alzarsi in volo. Mi commuovono le canzoni, le poesie, i bambini, le vite spezzate. Non riesco a piangere per gli altri. So ascoltare, però. Ho sempre amato una, al massimo due persone. Ho sempre detestato una, al massimo due persone. E mi chiudo a riccio quando gli altri fraintendono, quando gli altri si lagnano dei propri disastri, che ai miei occhi non sono tragedie. Forse, mi dico, è perché ho vissuto tante vite. Tra la luce e le ombre c’è sempre qualcosa. La mia educazione esce dal buio. Sono un numero. Statistica. Nonostante pezzi di infanzia violata, prima, e tasselli di adolescenza strappati, dopo, mi sono sempre sentita un’eletta tra i non eletti. Nonostante i sorrisi cementati nella mia faccia puntellata di nei, ho sempre tentato di capire gli altri prima degli altri.
Nonostante tutto non riesco ad appartenere al gruppo.
C’è chi parla, chi si espone appena e chi non si espone affatto. Ci sono storie che non possono essere rivelate senza provare un senso di colpa, di vergogna. Ci sono storie che alcuni di noi conservano nel profondo, perché narrandole ci farebbero ancora più male. Si ha il timore che vengano banalizzate, annullate, tradite. Non comprese. Non credute.
La mia faccia d’ape attira le storie. Sarà la mia voce, mi dico, saranno i miei modi. Perfino sul lavoro, alcune, davanti a una dichiarazione dei redditi, mi hanno rivelato le loro difficoltà: separazioni, tumori, solitudini. Molte hanno pianto, avevano bisogno di raccontarsi ad un’estranea, ad una persona che non le avrebbe interrotte e giudicate. Nella vita ho sempre tentato di evitare le frasi di circostanza, quelle cose che ti insegnano ai corsi di comunicazione, che leggi in rete o sui libri. Non mi sentirete dire: “Non trattenere la rabbia”, “sei una sopravvissuta, una guerriera, una vincente e bla bla bla”. La vita non si può semplificare, soprattutto quella degli altri.
Ci sono storie che alcuni di noi conservano nel profondo, perché narrandole ci ferirebbero ancora. Si ha il timore che vengano ridicolizzate, annientate, calpestate. Dimenticate. E molti di noi hanno bisogno di trovarci un senso. Un maledetto, fottuto, senso. Una luce, un motivo, un qualcosa che ci spinga ad andare oltre. Non ci accontentiamo di sopravvivere. Non sopportiamo la parola “sopravvivenza”. Non ci accontentiamo del vostro punto e a capo. Delle parole come “resilienza”, delle “tende del pianto” o frasi come “devi attraversare il buio”. Si cerca la normalità in questo mondo che tanto normale non è. Le regole cambiano da storia a storia, da persona a persona. Il vocabolo “guerriera – guerriero” funziona sui social, ma quando ci si guarda allo specchio, si è soli, beh, quella parola non ci è di conforto. Ci fa incazzare.
Il 16 settembre del 2016, dopo la perdita della mia creatura, scrissi un post
Durante l’isteroscopia e il raschiamento (revisione di cavità uterina) ho parlato con parecchie donne. L’universo femminile è una costellazione di storie finite male, di dolori, rinunce, sacrifici, strappi, molestie, violenze, sorrisi e tenerezze. Quando passi intere giornate in certi reparti respiri aria di gioia e sofferenza. In ospedale incontri mamme di bambini nati morti. E nessuna pacca sulla spalla. Si appartiene alla categoria del “vorrei ma non posso”. Le donne non sostengono le donne. Le donne fuori dall’universo ospedaliero si sopportano appena, madri contro non madri, donne contro donne. Tanti “io”, pochi “tu”. Si pensa al femminismo come un avanzamento di grado, di carriera, di qualche strana realizzazione. (…) Quest’anno ho incontrato donne bellissime, donne forti, più forti di me, donne pronte a tutto pur di mettere alla luce un figlio. Donne alle quali è stato tolto l’utero, donne a cui ho perfino spiegato, in ospedale, il bonus degli ottanta Euro. Spiegherei all’infinito quando trovo gentilezza e “amore”, soprattutto quando le donne vengono sfruttate dal mondo del lavoro, quando gli assistenti sociali se ne sbattono, i consulenti del lavoro si girano dall’altra parte, i sindacalisti fingono di non vedere, quando il mondo è stato, ed è, crudele con loro. Molte donne cianciano sui social o nei bar, mentre quella che è stata picchiata, che ha subito aborti e cesarei, che prende 500,00 Euro al mese, mi accoglie. Mi racconta la sua storia, e capisco che è per confortarmi, per abbracciarmi. Dice “Andrà tutto bene”. E in quel momento mi basta… è un codice, il codice dell’umanità. Di alcune donne. Poche.
Ci sono storie, infine, che portano con sé l’abisso.
A volte mi domando come sarebbe stata la mia vita se non fosse accaduta quella o quell’altra cosa… perché, alla fine, ce lo chiediamo tutti, prima o poi. Nell’ascoltare, talvolta aiutare, gli altri ho dato un senso a qualcosa di insensato. Le persone con cui ho parlato hanno voluto trovare un senso a qualcosa di insensato. Chiamatelo come vi pare, per andare avanti non basta attraversare i carboni ardenti. Si desidera la normalità, sentirsi capiti e accolti. Davvero. La guerra è altra cosa.
Questo post lo dedico a chi è stato meno fortunato di me, a chi ha visto l’abisso ed è stato travolto.
Alcuni, molte donne scelgono il silenzio.
Ci sono storie che confidiamo alla notte, in quelle ore ubriache dove pensiamo di essere finalmente accettati, capiti, assolti dal ruolo di vittime.
***
Nel mio piccolo racconto la bellezza. Semplice e pura bellezza. A me piace spronare le persone, invitarle alla meraviglia. A me piace pensare che, in alcuni casi, la migliore cura sia la tacita accoglienza.
***
Tre passi e dentro la finestra
Il cielo si fa muto
Resto lì a guardare
Io so cantare, so suonare, so reagire ad un addio
Ma stasera non mi riesce niente
Stasera se volesse Dio
Faccio pace coi tuoi occhi
Finalmente. Con te ho riscritto l’alfabeto
Di ogni parola stanca il significato
Perfettamente inutile cercare di fermare l’onda che
Ci annega e ci lascia senza fiato
Ed è una musica che va
In un istante è primavera
Che ritorna. E’ come un pesce che non può più respirare
Come un palazzo intero che sta per cadere
Tu sei l’unica messa a cui io sono andata
Un volo che è partito
Svanito in fondo al blu
E io adesso farei qualsiasi cosa
Per sfiorare le tue labbra
Per rivederti. Se è vero che il tempo ci rincorre
Oggi sono questa faccia
Questa carne e queste ossa
Le sento ancora addosso le tue mani che mi spostano più in là
Dove si vive solo di uno sguardo
È tardi, si spegne la candela
È sempre troppo tardi
Per chi non tornerà. E’ come un pesce che non può più respirare
Come un palazzo intero che sta per cadere
Tu sei l’unica messa a cui io sono andata
Un treno che è partito
Sparito in mezzo al blu
E io adesso farei qualsiasi cosa
Per averti fra le braccia
Per rivederti. Perché se manchi, tu manchi da morire
Perché amarsi è respirare i tuoi respiri
Stracciarsi via la pelle e volersela scambiare
È l’attimo fatale in cui mi sono arresa
Perché tu vieni con questo amore tra le mani
E come sempre nei tuoi occhi
La mia casa
Se tu mi chiedi in questa vita cosa ho fatto
Io ti rispondo ho amato
Ho amato tutto
Pietro Cantarelli
***
“Il tempo raccoglie ciò che porta il giorno e ciò che la notte sparge. Custodisce e trattiene. Il testimone è la pietra. Lo stato della pietra. Ogni pietra è una pagina scritta, letta e cancellata. Tutto si attacca ai granelli di terra. Una storia. Una casa. Un libro. Un deserto. Un vagabondaggio. Il pentimento e il perdono. Sapevate che perdonare è nascondere?”
Tahar Ben Jelloun “Creatura di sabbia”
Il libro “La donna degli alberi” di Lorenzo Marone mi ha ricordato “Creatura di sabbia” di Tahar Ben Jollun. Non tanto per la storia, che è completamente diversa, ma per il modo di scrivere. Entrambi gli autori più che narrare una vicenda, si soffermano sulle emozioni. Sono equilibristi della parola. La scrittura di Marone è onirica, colonizzata dalla natura e dalle sensazioni che proviamo quando indossiamo la vita. Mi ci sono ritrovata, ho abitato, finché leggevo, le vesti de “La donna degli alberi”.
“Ho urlato al Cane di aspettarmi, e il Monte mi ha restituito l’eco della mia voce distorta, ho recuperato lo zaino e preso la montagna a scendere. L’ululato di un lupo accompagnava da dietro il mio cammino, gli animali erano nelle tane e mi guardavano furtiva. Il bosco riecheggiava dei miei passi, e metteva paura. Non me ne sono curata e ho proseguito decisa. Il dolore nella vita mi ha fatto capobranco”.
Lorenzo Marone “La donna degli alberi”
***
Il mio modo di raccontarmi (le foto hanno formati diversi perché gli apparecchi fotografici utilizzati sono differenti tra loro)







***
Amar Pelos Dois
Se um dia alguém perguntar por mim
Diz que vivi pra te amar
Antes de ti, só existi
Cansado e sem nada pra darMeu bem, ouve as minhas preces
Peço que regresses, que me voltes a querer
Eu sei que não se ama sozinho
Talvez, devagarinho, possas voltar a aprenderMeu bem, ouve as minhas preces
Peço que regresses, que me voltes a querer
Eu sei que não se ama sozinho
Talvez, devagarinho, possas voltar a aprenderSe o teu coração não quiser ceder
Não só ter paixão, não quiser sofrer
Sem fazer planos do que virá depois
O meu coração pode amar pelos dois
Luisa Maria Vilar Braamcamp Sobral
A Stefano.