Grazie allo stile incalzante di Luisa Multinu ci immergiamo nelle atmosfere londinesi, nella vita frenetica della protagonista. Fin dalle prime pagine veniamo travolti dalla dura realtà di chi si trasferisce nella capitale britannica per lavoro. Perfino gli sfruttati diventano a loro volta sfruttatori.
“Los Gordos se la prendono sempre con qualcuno. E se non hanno nulla da sbraitare contro Ida, attaccano i cuochi polacchi, i camerieri, oppure il povero Martin, che in pratica vive lì nel seminterrato assieme ai topi. Lei vorrebbe aiutarlo, prendere le sue difese, ma in quel posto, è inevitabile, ognuno finisce per pensare a se stesso.”
Il sogno di Ida è quello di tanti italiani, delusi dai troppi curriculum abbandonati sulle scrivanie di ipotetici datori; avviliti da un paese che incolpa chi non scende a compromessi. Londra diviene, agli occhi della protagonista, una terra promessa, a volte crudele, a volte gentile.
“Londra ha mille volti: ti sorride, ti spaventa, ti rimprovera e poi ti ammalia. Può schiacciarti, trascinarti in fondo e un attimo dopo elevarti in alto, fin dove non avresti mai immaginato”.
Come Ida, so cosa voglia dire vivere in una piccola realtà (come lei sono veneta) in cui le possibilità di rivincita sono poche.
“Nei paesi funziona così: la gente è molto interessata al fallimento altrui”.
L’autrice mi ha fatto respirare, angolo dopo angolo, il clima londinese. Ho percorso con lei le strade, i pub, i monumenti, le case fatiscenti e i palazzi luccicanti. Sono tornata con la memoria alla mia prima volta a Londra, nell’appartamento sporco in cui alloggiavo. Di colpo ho percepito l’odore della Tube, che non è come quella di Parigi, Milano o Roma.
Ida sa che per rimanere nella metropoli inglese bisogna combattere e sopportare.
“… È il battere in controtempo di milioni di cuori, il respiro comune di questa umanità ebbra di speranza, che va avanti e lotta per crearsi una vita dignitosa, che sogna, che è pronta per ricominciare tutto da capo.”
La bravura di un’autrice sta nel catturare il lettore e Luisa Multinu lo fa benissimo. Il romanzo racconta le paure del nostro tempo, il sogno di migliaia di giovani. L’autrice scrive con uno stile fresco e brillante. Coglie l’essenza di un luogo, tanto da trasportarci tra le persone, i sentimenti, i colori, i rumori, i profumi. Ci sentiamo parte del racconto.
“… sorseggiare in bar illuminati da lampade al cherosene, i pomeriggi da trascorrere a leggere poesie in una vecchia ed elegantissima sala da tè, dove regna ancora l’opaca atmosfera dell’Ottocento decadente, le fantastiche birre senza schiuma nei pub, nei quali suonano sbandatissime punk band femminili, o vecchie glorie della new wave, i club febbricitanti e straripanti di gente assurda, le strade in cui senti risuonare tutte le lingue del mondo…”
“… Per quelli nati negli anni Ottanta come lei, Camden era una specie di luogo sacro, il regno dei Pistols, dove in un club qualsiasi, di notte, potevi incontrare Amy Winehouse sbronza, artisti, scrittori, musicisti e attori dediti a uno stile di vita anticonvenzionale e fieramente marginali.”
In “Mind the gap” il personaggio principale si evolve attraverso prove e avversità.
Della scrittrice ho apprezzato i riferimenti letterari e culturali, da William Wordsworth a Sylvia Plath, da John Clare a John Keats, da Forster a Vanessa Bell, da Winehouse a James Blake.
La scrittura fluente evoca quella di certe autrici, in grado di stupire e farci riflettere.
È un libro imperdibile soprattutto se si ama la buona musica, l’arte, Londra, la letteratura, i finali inattesi.
Assolutamente da leggere.
Nota: Ho odiato e amato il personaggio di Ida. Mi sono rivista in lei, nel suo romanticismo (che non è quello dei cioccolatini Perugina), nella sua rabbia (è nata il 15 marzo come me).
L’Italia è un paese in cui i sogni si infrangono velocemente, dove dopo i 28 anni sei fuori target, troppo vecchio per cambiare mestiere o trovare lavoro, ed è così da tanti anni.
