“Safari” in lingua swahili significa “lungo viaggio”, in arabo, “safara”, viaggiare.


Lungo la costa la vita procede lenta, dettata dalle maree dove si sente ancora il respiro del pianeta.
Quest’anno, data la mia depressione o crisi di mezza età, avevo voglia di una vacanza leggera, qualcosa che mi distraesse, che mi allontanasse dalle brutture e dai problemi quotidiani. Volevo ritrovare la creatività, lasciare a casa la maschera, il vestito di “donna senza importanza”. Nel giro di due anni ho messo su chili e umiliazioni. Chi sono? Oggi fotografare è cosa da professionisti, le persone non distinguono uno scatto fatto con uno smartphone da uno realizzato con una reflex. Ci si inventa fotografi dopo aver frequentato un corso. Quando ero più giovane, e con meno esperienza, ammiravo quelli che si definivano pittori e scrittori, oggi li guardo con tenerezza, forse tristezza. Ho sempre pensato che la creatività avesse a che fare con il vocabolo Anima. Il mio romanticismo è patetico.

Armata di buone intenzioni e poche aspettative, sono finita a Zanzibar. Le idee che avevo dell’isola (in verità si chiama Unguja) erano errate. Nei resort i turisti occidentali rimangono occidentali, sdraiati nei loro lettini sotto l’ombrellone mentre i beach boys o vu comprà aspettano in spiaggia la migliore occasione della giornata. Turista o beach boys non fa differenza, cambiano i ruoli, la prigione è la stessa. Le spiagge, semi deserte, cosparse di coralli, rossi e bianchi, di conchiglie e carcasse di pesci esotici diventano cibo per gli occhi, intrappolate in qualche fotografia, ricordo di viaggio. Così, le stelle marine, grandi quanto un piatto, vengono toccate, palpate e maneggiate dai turisti per il gusto di uno scatto, un video.


Si guarda l’alba o il tramonto attraverso smartphone, dimenticando il valore della parola “esperienza”. Fotografare un tramonto è una cosa, fare video e centinaia di scatti un’altra. Il turista ingordo non è mai sazio di: video, creme, bevande e finte situazioni, dove tutto è programmato, costruito ad hoc per raccontare e mostrare il “io c’ero”. Eppure Unguja è una terra strana, in cui i resort, custoditi amorevolmente dai Zanzibarini, e di proprietà occidentale, sono regni fuori dal tempo e dalla spazio. The Sands Beach Resort custodisce un giardino da fiaba, e lo dico in senso buono. La natura che circondava il nostro alloggio era un tripudio di: lucertoloni, gechi, uccelli variopinti, colibrì, palme da cocco, albero del tamarindo, bouganville…

Avrei voluto fotografare le raccoglitrici di alghe o di spugne, parlare con i pescatori, e mi sono ritrovata a contrattare con chi voleva vendermi una collanina, un tour o un massaggio. Con le guide locali, come in altri viaggi, finisci sempre in qualche negozio di souvenir. A 50 anni i souvenir non mi interessano.



Zanzibar è una terra dalle molte anime. C’è la natura con le foreste, le piantagioni di cocco e banane, la frutta (jackfruit, ananas, frutto della passione…), le spezie, gli animali esotici (scimmie, tartarughe, stelle marine, meduse gigantesche…).






Ci sono i resort, i tour, le guide locali, i turisti e i beach boys. Ci sono i paesi con i negozi “baracche”, i venditori di oggetti di artigianato e le casette mezze diroccate. A Unguja girano carretti trainati da muli, vecchi pulmini giapponesi o camioncini, dove spesso qualche Zanzibarino rimane “appeso” fuori su una sorta di scalino improvvisato. Le donne, gli uomini e i bambini sfidano la strada a piedi o in bici, magari in due, perfino di notte. Nonostante la povertà, la polvere, la mancanza di marciapiedi e di strutture occidentali, i Zanzibarini non mancano mai di sorridere, di salutarti, di farsi volere bene. C’è in loro qualcosa di irraggiungibile. Le guide locali accontentano il vacanziere, conducendolo nei luoghi da turista: mare, spiaggia, foresta. E spesso il vacanziere si lamenta del vento, della pioggia, del sole, del beach boy, delle alghe, della bassa marea, delle onde, del cibo. Il vecchio mercato degli schiavi di Stone Town o le Mangrovie all’interno della foresta di Jozani finiscono presto nel dimenticatoio. In quello che un tempo avremmo chiamato “album delle fotografie”.


Eppure la vita, quella vera, è fatta di persone che lavorano, amano, parlano, pregano, festeggiano, sperano. Di notte, vicino ai chioschi ormai chiusi, i zanzibarini rimangono a parlare, malgrado il buio, la luce soffusa. Le donne e gli uomini tornano nelle loro case, in fila indiana, sul ciglio della strada. Così nella mia testa rimangono i ricordi fatti di tetti di lamiera, Dhow, camioncini polverosi, motorette, improbabili feste dedicate alla luna piena, danze, matrimoni e vesti colorate, magliette lasciate ad asciugare al sole, vento, riflessi sul mare e invitanti cartelloni pubblicitari. Mi ricorderò: dell’ufficio dove ho cambiato gli scellini, del commerciante di cappelli di paglia, del mercato del pesce, della cordialità di Ally, delle mami che rifacevano le stanze, dei delfini visti col cannocchiale, del cielo stellato (nonostante la luna). Rammenterò il villaggio di Paje, il tassista che ci ha aspettato un’ora dentro l’auto e le porte in legno intagliato a Stone Town. Custodirò da qualche parte gli odori e i sapori delle spezie: cardamomo, chiodi di garofano, cannella, pepe, citronella, noce moscata, vaniglia, cumino, curcuma…
La musica si infila sotto la pelle. E ci sono tanti tipi di musica: quella del vento tra le palme, quella del mare e infine quella della gente del luogo.

Dovremmo smettere di guardare il mondo attraverso un filtro, imparare da chi “apparentemente” ha meno di noi. A volte dovremmo essere meno turisti e più viaggiatori.


Zanzibar si è conficcata nel cuore, un altro tassello del grande puzzle della vita e con il cuore la ringrazio.


Grazie.










Musica non così a caso del post
un luogo da sogno.
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Un viaggio fotografato e narrato splendidamente.
Ancora una volta, grazie!
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