Streghe seconda parte

Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.

David Thoureau

Quante volte abbiamo sentito queste parole… senza comprenderle…

Eppure c’è una bellezza nei boschi che ancora non riesco a spiegare. Gli alberi narrano una storia, che muta ogni mese. Ho sempre l’impressione, nel guardare la camminata altrui, che gli altri non riescano a vedere la natura. Lungo il sentiero mi piace fotografare e osservare da vicino l’Hepatica nobilis, la Colombina Cava, l’Anemone dei boschi, l’Eritronio, l’Erica arborea…

Ogni suono ha un codice: code di lucertole, ali di insetto, canto di scricciolo. Le persone che mi superano si agitano come bambini, stretti nelle loro tute e scarpe tecniche, manco fossimo a duemila metri di altezza. Se c’è da strappare strappano, se vogliono urlare urlano. E allora non mi capacito come si possa attraversare la vita senza guardare, ascoltare, annusare.

Che senso ha mettere un like a una foto di un fiore se quando ci passiamo accanto non lo guardiamo? Che senso ha fotografarsi per dire sono “nei boschi” o “ho raggiunto la cima”, quando non si vive il momento? Quando non si è compreso il luogo che si sta calpestando? Come si può credere di cambiare questo mondo, quando l’unico pensiero dell’essere umano è quello di superare l’altro, di correre: a piedi (di rado in città, le persone per attraversare la strada usano l’auto), in bici, in moto, in auto.

La natura richiama la calma. Tuttavia le persone si sentono in obbligo di palpare le stelle marine, di strappare i fiori, di lasciare le noci di cocco e le bucce di banana sulla spiaggia, di sparare al lupo, di gettare le bottigliette d’acqua (ringraziamo pure i ciclisti), di lasciare i bossoli nel bosco. Tutto in nome di una foto, di un fisico mozzafiato, di un “sono stato là”, di una gara. Perché, e l’Everest insegna, della natura e delle creature che ci abitano, non frega niente a nessuno. Eppure acquistiamo libri sui bagni nei boschi, sullo yoga tra gli alberi e applaudiamo come ebeti a ‘sto povero sole che se potesse parlare ci manderebbe tutti a f*****o!

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Streghe

Mentre il popolo conservava, attraverso miti e leggende, l’amore e il rispetto verso il mondo naturale, dopo il 1550, per circa un secolo, la caccia alle streghe fu violenta. Le donne, soprattutto nelle zone rurali e montane, si preoccupavano della salute dell’intera comunità. Erano guaritrici, ostetriche, speziali, veterinarie. Si occupavano di fumigazioni, lavacri, allontanavano i parassiti delle piante. Provate a pensare alle vostre nonne o bisnonne che conoscevano il modo per abbassare la febbre, combattere i pidocchi, i vermi. Ecco le vostre nonne e le vostre bisnonne nel XVI secolo sarebbero state messe al rogo.

La caccia fu intensa nella Germania meridionale, in Svizzera, in Alsazia, nella Francia Contea, in Belgio. Nel seicento l’ondata di terrore raggiunse la Transilvania, la Svezia, perfino l’America.

I protestanti non furono meno spietati dei cattolici. La caccia alle streghe andò di pari passo con le rivolte contadine in Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Tirolo, Jugoslavia, Boemia.

Con l’intensificazione della repressione contro le streghe, gli Stati adottarono di pari passo la procedura inquisitoriale. Questa adozione è provata da un forte inasprimento del diritto penale con la generalizzazione dell’uso della tortura giudiziaria e l’introduzione dell’istruttoria segreta e scritta in luogo del dibattimento pubblico e orale. La nuova procedura limitava, o addirittura privava della difesa individui spesso illetterati di fronte a giudici che adoperavano la scrittura e che erano i soli a conoscere il contenuto dell’incartamento processuale… (Pinuccia Di Gesaro)

La cavalcata notturna delle streghe al Sabba rimanda alle cacce fantastiche note con i nomi come “caccia selvaggia” (wilde jagd o mesnie sauvage) e caccia volante (chasse volante). Diffuse in buona parte dell’Europa, Tacito citava “feralis exercitus” (esercito dei morti) la caccia guidata da Mercurio/Wotan. In Francia erano famose quelle con a capo Re Davide, Sant’Eustachio, Erode, Artù, Proserpina… In Italia alla testa della cavalcata notturna delle donne c’era spesso Erodiade (da Herodiana), il nome derivava da quello delle dee Hera e Diana.

La leggenda medievale di Erodiade, la tradizione pagana di Diana, i miti celtici, celto-germanici o romani, i culti legati alla fertilità si mescolarono tra loro. A seconda delle zone la Signora del gioco (domina ludi) in Italia prendeva il nome di: Madonna Oriente, Donna del bon Zogo, Richella, Herodiana, Diana, Sapiente Sibilla; in Francia: Bensotia, Satia, Dame Habonde; in Germania: Holle, Diana, Holda-Perchta, Frau Venus; in Romania: Irodiana, Arada (Erodiade), Doamma Zinelor.

In qualche modo, il popolo del rinascimento continuava a portare avanti qualcosa proveniente dal passato. Diana/Ecate non era solo “la strega” bevitrice di sangue, ma una divinità femminile legata alla Natura.

Il bosco come un tempio

In Irlanda, nel 400 d. C. le divinità si trasformarono in piccole creature: faeries o sidhe. L’Europa, nonostante il cristianesimo, conservò al suo interno i culti legati alla natura. La Chiesa tentò di accontentare il popolo con figure semidivine, come i santi.

In Veneto i capitelli con immagini della Madonna e dei santi venivano collocati lungo le strade, in corrispondenza degli incroci, per proteggere i viaggiatori dai malefici di salbanei, fade, orchi o dallo striamento, il malocchio delle streghe.

Tornando ai boschi e ai luoghi di montagna, la figura tipica delle aree dei Tredici comuni – Draitza Kamoündar in Cimbro – (Lessinia – Prealpi Venete) e dei Sette comuni – Hoaga Ebene vun Siiben Kameûn o Hòoge Vüüronge dar Siban Komàüne in Cimbro – (Prealpi vicentine, tra i comuni di Vicenza e Trento) è quella delle Zeelighen Baiblen (scritto in modo diverso a seconda delle zone): le Beate donnette. La caratteristica delle Beate donnette è la gentilezza verso i montanari. Alte poco più di un metro, vestite di bianco, dai capelli canuti, regalano gomitoli di lana che non finiscono mai alle povere donne. In cambio chiedono di tessere la lana ricevuta senza imprecare e di non rivelare a nessuno la presenza dei banchetti magici. Le Zeelighen Baiblen amano la natura e lasciano preziosi consigli ai contadini e ai montanari. Un’altra figura importante di queste zone sono le Anguane. Hanno molti tratti in comune col folklore germanico e con le figure greco romane come le ninfe e le sirene. Le Anguane sono legate alle fonti e ai corsi d’acqua. Le Fade (fate) sono mutevoli, capricciose, molto simili a quelle irlandesi. Talvolta l’Anguana si sovrappone alla fata. Dove l’acqua scarseggia, l’Anguana assume un ruolo benevolo; il ruolo di tentatrice, invece, viene ricoperto dalla fata.

Ogni bosco ha la sua storia.

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Recensione di Le Streghe di Manningtree di Blakemore

Le streghe di Manningtree di Blakemore è una lettura interessante. Interessante per l’argomento trattato. Il romanzo racconta, attraverso gli occhi di Rebecca West, la pazzia e il terrore che toccarono la cittadina della contea dell’Essex. A parte qualche descrizione poetica, il romanzo nei primi 20 capitoli è privo di forza. Se “Gli occhi di Alice Gray” di Stacey Hall conteneva qualche banalizzazione di troppo, questo libro scivola nella noia per quasi 200 pagine. Le donne/vittime, come spesso capita nei romanzi moderni, sono eroine vivaci, furbe e colorate; gli uomini/gli aguzzini sono grigi, ignoranti e crudeli. Il carattere dei personaggi è tagliato con l’accetta. L’autrice si è preoccupata più a descrivere le vicende personali, e poco coinvolgenti, delle protagoniste che a trasmetterci la fame, la malattia, l’ignoranza che imperversavano in Inghilterra nel 1643. Un’italiana/o, che sa poco di guerre civili inglesi, vuoi per studi vuoi per età, quando legge di Realisti e Parlamentaristi capisce metà dei fatti. I romanzi storici non sono, per carità, testi universitari ma devono catapultare il lettore nel fango e nella fame quando trattano di fango e di fame.
Perfino quando le donne vengono “pungolate” nel libro non ho sentito “gli sgranfi” (l’ho scritto appositamente in veneto). Le presunte streghe venivano punzecchiate con uno spillone in ogni punto del corpo per scovare la parte dove non avvertivano dolore.
“E benché la metà di noi (…) sia stata pungolata da persone pressoché sconosciute, quella è l’umiliazione peggiore: il fatto che quell’estraneo, quell’uomo di Colchester, abbia l’ardire di guardarci, di contarci, di dirci quanto puzziamo”.
Nel capitolo 20, pag 199, Blakemore ci mostra di colpo il volto della povertà, fatto di elemosine, di odori di urina, di armi, di aringhe, di “ferite suppuranti”…
Dal capitolo 20, finalmente, anche se è brutto da scrivere, entriamo nello “stomaco” della storia.

Nel libro ci sono termini, ma non so se sia un problema di traduzione, che all’epoca, penso, non utilizzavano, tipo “acaro”. Tra parentesi l’acaro, pur essendo un aracnide, ha 4 zampe e non 6 come un insetto, né 8 come un ragno.
Il romanzo è interessante per le riflessioni dell’autrice e per chi non ha mai letto nulla sulle donne accusate di stregoneria, soprattutto dal capitolo 23 in poi.
Il finale a sorpresa non è così originale, ma è figlio dei nostri tempi.
Non ha la stessa forza di “Io, tituba strega nera di Salem” o di “Vardø dopo la tempesta”.

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Scatti di primavera

Musica del post

Fonti

Ittele della montagna spaccata di Jury Zambon

Streghe: l’ossessione del diavolo – il repertorio dei malefizi – la repressione di Pinuccia Di Gesaro

Volare al Sabba – una ricerca sulla stregoneria popolare di Cesare Bermani

Foto mie – Simona M.

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