“Quella stanza, invece, era tappezzata di scaffali alti fino al soffitto e gremiti di libri:  centinaia – migliaia, forse – con i titoli impressi a lettere lucenti. Jonas li fissò a bocca aperta. Che cosa contenevano tutte quelle pagine?”

Da “The giver” di Lois Lowry

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“Avevo 12 anni, quando un giorno notai che sul mio polso erano spuntati dei peli. Dissi: “Mio Dio, sono vivo. Qualcuno avrebbe dovuto dirmelo che sono vivo”. Un mese dopo una maschera del carnevale, l’uomo della sedia elettrica, mi vide dal palco, mi puntò il dito sul naso e mi disse “Live forever! Live forever!”

Ray Bradbury

Spiegare il mio amore per Ray Bradbury è un’impresa impossibile. Ogni racconto, ogni parola, ha la sua vibrazione. La leggenda vuole che Ray scrivesse dovunque e senza seguire delle regole precise. La sua è una scrittura unica, onirica, vivace, perfetta. Disgraziatamente, in Italia si conosce appena. Lo si legge di striscio, tra un cappuccino e una pizza, Ray nell’immaginario collettivo italiano è quello di “Fahrenheit 451” e di “Cronache marziane”. Punto. Eppure ha saputo narrarci di mondi nascosti, di eventi straordinari, di venature e stagioni. A me piace pensare che gli scrittori, quelli veri, sappiano condire le parole. A me piace pensare che i narratori, come Tusitala*, conducano il lettore nei loro regni, fatti di pianeti, fruscii di foglie, bava di lumaca e occhi lucidi.

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Quando leggo il vecchio Ray mi riconosco, sento le scaglie del drago. I suoi racconti sono suggestivi perché sono colmi di vita: pulsioni, ricordi, amicizia.

David Lean (regista) diceva che un regista gira sempre lo stesso film, io, probabilmente, leggo sempre gli stessi libri.

“I libri sono intelligenti, brillanti e saggi. Il più importante per me è Favola di Natale di Dickens, che parla di vita e morte. Halloween tree  è la mia versione. Ho qui un libro di Scott Fitzgerald, ne ho sette copie. Ogni volta che vado a Parigi l’attraverso dall’alba al tramonto leggendo un capitolo. Alla fine li ho letti tutti e sette così. Fermandomi in un ristorante, un’esperienza totale, per innamorarmi ancora”.

Ray Bradbury

Noi ci rivediamo in alcune scrittori perché condividiamo con loro le sfumature, l’immaginazione, la passione e, nel mio caso, la nostalgia.

“Da bambino, nelle mattine di primavera aveva l’abitudine di affacciarsi alla finestra della sua camera da letto, nell’aria che sapeva di neve, per guardare il sole che scintillava sull’ultimo ghiacciolo dell’inverno. Il sangue dell’aprile, freddo ma già sul punto di scaldarsi, cadeva simile a un gocciolio di vino bianco da quella chiara lastra di ghiaccio. Minuto dopo minuto, l’arma del dicembre si faceva sempre meno pericolosa. E poi, finalmente, il ghiacciolo cadeva con un suono come quello di un’unica nota di carillon, finendo sul viottolo coperto di ghiaia, più in basso.”

Da “Ricamo” di Ray Bradbury

Indirizziamo i nostri gusti a seconda delle aspettative. Ci tuffiamo dentro ad un cinema per vedere quel film, quell’attore. Ascoltiamo quella canzone che rappresenta il nostro stato d’animo; amiamo certi cantanti perché inconsciamente ci evocano qualcosa. Nuotiamo tra i libri che “parlano” la nostra lingua.

La vita è fatta di codici. E leggiamo sempre le stesse storie, senza rendercene conto.

“Ogni venerdì cinque casse di arance e limoni arrivavano da un grande fruttivendolo di New York; ogni lunedì le stesse arance e gli stessi agrumi lasciavano la porta di servizio in una piramide di bucce senza polpa. C’era in cucina una macchina che spremeva il sugo di duecento arance in mezz’ora: purché il pollice di un maggiordomo fosse stato lì a premere per duecento volte un bottoncino.”

Da “Il grande Gatsby” di Francis Ford Fitzgerald 

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“… Ma il vento continuava a soffiare: un brandello di carta stagnola fugge via dal nostro ponte in una corrente ascensionale e viene trasportato sopra il Pont-Neuf e l’Ile de la Cité, per poi scendere in una pioggia di coriandoli sui gradini della chiesa dove una giovane coppia in posa sorride ad un fotografo. Scelte, scelte. Chi sarà? La sposa? Lo sposo? Io trovo più interessanti gli ospiti: quell’adolescente, un ragazzo, con uno sfogo di herpes simplex intorno alla bocca imbronciata, la nonna con il viso incavato e le mani nodose sotto i guanti bianchi. Per me sono tutti belli, tutti degni della mia attenzione. Lascio la scelta al brandello di carta stagnola: c’è poesia in questo.”

Da “Spirito Libero” di Joanne Harris

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“Poi l’estate, con in nugoli di moscerini, tafani e zanzare e il duro terreno arrostito che sembrava un gigantesco letto di chiodi piantati dagli zoccoli di un milione di bufali dentro sporgenze grandi come pugni.”

Da “West” di Carys Davies

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“Forse era un guscio di lumaca che spuntava tra l’erbetta come una grigia cattedrale, un edificio tondeggiante cerchiato da nere bruciature e ombreggiato dal verde dell’erba. O forse vedevano lo splendore dei fiori che trasformavano le aiuole in un unico frutto violaceo di luce, attraverso il quale, tra uno stelo e l’altro, correvano buie caverne d’ombre violette.”

Da “Le onde” di Virginia Woolf

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“Aveva allevato tacchini, polli, anatre, uomini e ragazzi. Aveva lavato soffitti, pareti, invalidi e bambini. Aveva sistemato pavimenti di linoleum, riparato biciclette, caricato orologi e preparato forni, spalmato tintura di iodio su centinaia di dolorose ferite. Le sue mani si erano mosse incessantemente, carezzando qui, tenendo là; avevano lanciato palle da baseball, maneggiato agili mazze da croquet, seminato la terra nera, messo coperchi su pentole di brodo e di stufato, e coperte sui corpi dei bambini addormentati. Aveva chiuso imposte, spento candele, girato interruttori… e nel frattempo si era fatta vecchia. Pensando alle migliaia di milioni di cose che aveva cominciato e fatto, era facile arrivare al gigantesco totale. Ora anche l’ultima cifra era incolonnata; l’ultimo zero apposto con cura. Col gesso in mano, la bisnonna si ritirò dalla vita per un’ora silenziosa prima di passare il cancellino. – Vediamo – borbottò fra sé. – Vediamo…-  Senza disturbare nessuno, e senza aiuto da nessuno, fece per l’ultima volta l’inventario della casa, poi guadagnò le scale, e, senza annunci speciali, andò in camera sua e si stese come un’impronta fossile sulle lenzuola fresche, dove si preparò a morire.”

Da “L’estate incantata” di Ray Bradbury

Sì, in un modo o in un altro inseguiamo certi racconti, perché ci fanno sognare, altre volte pensare, altre volte ancora narrano di noi, delle nostre speranze o stati d’animo.

A quattro anni, Stephen King ascolta di nascosto alla radio “Marte è il paradiso” di Ray Bradbury. Ne rimane così impressionato da non riuscire più a dormire al buio.

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In questa vita fatta di parallelismi, King, come Bradbury, racconta la provincia americana. Bradbury è malinconico, visionario, i suoi protagonisti vivono in bilico tra paura e sogno, King, invece, è ossessionato dal male, reale o immaginario.

Stephen King è uno scrittore spesso, come altri prima di lui, sottovalutato. In fondo, molti pensano che “La guerra dei mondi” sia un’opera di Spielberg o che “La macchina del tempo” sia un brutto film, e si dimentica lo scrittore: H. G. Wells. A volte capita il contrario, tutti sanno, o quasi, chi siano Edgar Allan Poe o Oscar Wilde, ma pochi conoscono le loro opere.

King è un grande narratore, lo è ad esempio in “The sun dog”, racconto tratto da “Quattro dopo mezzanotte”, e in “The elevation”.

In “The sun dog”, il giovane Kevin riceve per il suo compleanno una Polaroid. Immediatamente, vinto dall’entusiasmo, scatta la prima foto, e, con sorpresa, si ritrova a fissare un cane nero vicino ad un vecchio steccato. A mano a mano che la storia procede, si scopre che le foto fatte con quella macchina fotografica mostrano solo quel cane che, immagine dopo immagine, avanza, sempre più minaccioso.

“Cominciarono a ridere insieme e Kevin scoprì di sentirsi quasi (solo quasi) felice che tutto quello fosse accaduto, il senso di sollievo era inesprimibile e tuttavia perfetto come la sensazione che si prova quando, o per caso fortunato o per un’intuizione azzeccata, qualcuno riesce a grattarti proprio quel punto della schiena dove ti tormenta il prurito e dove non arrivi con le mani, e allora dopo un attimo di meraviglioso supplizio quando quelle dita sfiorano giungendo a destinazione, ecco… ah, che beatitudine!”

Da “Sun Dog” di Stephen King

King gioca con i suoi lettori, permettendosi il lusso di citare i suoi racconti (in “Sun Dog” “Cujo” e in “Elevation” “It”).

“Ricordò all’improvviso il San Bernardo di Joe Camber, quello che aveva ucciso Joe, quel vecchio ubriacone di Gary Pervier e Big George Bannermann. Quel cane aveva preso la rabbia. Aveva intrappolato una donna e un bambino a bordo della loro automobile su alla casa di Camber e dopo due o tre giorni il bimbo era morto.”

Da “Sun Dog” di Stephen King

“I ragazzi delle superiori si preparavano per il ballo in maschera nella palestra del liceo, e la rock band locale, i Big Top, aveva deciso di ribattezzarsi Pennywise and the Clowns per l’occasione”

Da “Elevation” di Stephen King

In “Elevation” il protagonista, Scott Carey, sta perdendo peso, almeno così dice la bilancia, ma il suo aspetto è sempre lo stesso. La forza di gravità si sta dissolvendo dal suo corpo. Grazie a questa scoperta, che dovrebbe renderlo infelice, Scott tenta di cambiare la testa delle persone, combattendo contro i pregiudizi e aiutando un paio di amiche.

“Superò il cartello con la scritta di BENVENUTI A CASTLE ROCK, a partire dal quale la statale 119 diventava Bannerman Road in onore dello sceriffo più longevo nella storia della cittadina, un poveraccio che aveva fatto una brutta fine in un vicolo poco frequentato. Era arrivato il momento di accelerare il passo, e sotto il cartello degli otto chilometri Scott passò dalla prima alla seconda. Senza la minima difficoltà. L’aria fresca e deliziosa accarezzava come seta la sua pelle accaldata, e Scott era confortato dal modo in cui il cuore gli batteva nel torace, come una macchina oliata alla perfezione.”

Da “Elevation” di Stephen King

A me piace pensare che gli scrittori siano in grado di trasportarci in altri luoghi, dentro la testa di altre persone. Sì, mi piace pensare, che da qualche parte, nel mondo, ci sia un’altra o un altro Bradbury o un/a futuro/a King capace di raccontare qualcosa che parli di me.

“Nelle biblioteche ci sono persone, non libri. È molto più personale. Guardi un libro di Charles Dickens e tu sei Charles Dickens. E quando hai in mano uno specchio vedi te stesso ma il tuo nome è Charles Dickens. Quando apri il libro la persona che l’ha scritto salta fuori e diventa te. Lui è te. Guardi uno specchio, diventi Shakespeare, Dickinson o Robert Frost. Ecco cos’è una libreria. Trovi tutti quegli autori che possono guidarti nell’oscurità, e ti dicono: “Ecco li c’è la luce”. Vai in libreria e scopri te stesso”.

Ray Bradbury

Da ragazzina sognavo di incontrare il vecchio Ray, probabilmente sognavo di saper scrivere come lui.

Il mio più grande rimpianto è di non essere riuscita a trasmettere il mio amore per un certo tipo di letteratura, forse sono nata nel luogo sbagliato.

Qualcuno nel mondo conosce “L’estate incantata” (Dandelion Wine). Nel 2006 Ray Bradbury è stato insignito del  titolo di duca di Diente de Leon dal re del Regno di Redonda, e tutto questo, non chiedetemi perché, suona come uno dei racconti di Márquez.

* Robert Louis Stevenson veniva chiamato “Tusitala”, il narratore di storie.

SimonaEmme

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